Prologo
– L'iconostasi, il maestoso "muro di immagini" che caratterizza l'interno delle chiese ortodosse, non è solo un elemento architettonico, ma un profondo simbolo teologico. In queste acute "Riflessioni", la teologa Elisabeth Behr-Sigel prende spunto dal lavoro dello storico dell'arte Martin Winkler ("I Giorni di Festa", collana "Il Mondo delle Icone", Ed. Ides et Calendes, Neuchâtel, Svizzera) per tracciare l'evoluzione dell'iconostasi, dal suo germe nella semplice recinzione dei primi secoli fino alle monumentali pareti iconografiche della Russia moscovita. Con grande lucidità, l'autrice non si limita a una disamina storica, ma pone una questione cruciale per la coscienza ecclesiale di ogni tempo: quando l'iconostasi adempie al suo scopo di unire il cielo e la terra, e quando, invece, rischia di diventare un velo che, anziché condurre al cuore del mistero liturgico, cattura lo sguardo e ne indebolisce la partecipazione? Questo saggio invita a riscoprire l'essenza dell'icona come porta sul mistero e dell'iconostasi come collegamento tra la Chiesa militante e quella trionfante, in una riflessione che unisce storia dell'arte, teologia e spiritualità.
Il secondo volume della collana «Il Mondo delle Icone», illustrato da 16 tavole a colori eccezionalmente luminose, è dedicato alle dodici grandi feste del «ciclo liturgico» della Chiesa Ortodossa. In effetti, insieme alla Deesis – immagine della Madre di Dio e di Giovanni Battista intercedenti per la salvezza degli uomini – le icone «delle dodici feste» costituiscono il tema centrale attorno al quale si organizza l'iconostasi, caratteristica delle chiese di rito bizantino.
Quali sono l'origine e la storia dell'iconostasi? A quali imperativi religiosi ha obbedito il suo sviluppo nel corso dei secoli? Qual è il suo significato teologico e liturgico profondo, essenziale? È a queste domande che si sforza di rispondere Martin Winkler in un'introduzione (tradotta dal tedesco da J.-Philippe e Brigitte Ramseyer) la quale, per la sua concisione, per l'esattezza della sua informazione e soprattutto per la simpatia con cui l'autore si accosta all'oggetto delle sue investigazioni, è un modello nel suo genere.
M. Winkler evita così il fraintendimento di certi storici dell'arte, i quali vedono nell'icona un'entità puramente estetica.
Nata dalla fede e dalla preghiera della Chiesa, da esse informata, cioè ricevendo da esse la sua forma propria, l'icona è proposta alla venerazione dei fedeli affinché attraverso di essa, purificato da questa visione di linee e colori sottomessi al canone ecclesiale, lo sguardo dell'orante si elevi alla contemplazione amorevole e adorante del Mistero Divino. Al di fuori di questa prospettiva, quella in cui si colloca precisamente l'autore de «I Giorni di Festa», l'icona rimane indecifrabile, quale che sia la competenza tecnica e artistica del commentatore.
Per quanto riguarda l'iconostasi, questo «muro di immagini» che, ai nostri giorni, nella maggior parte delle chiese greche o russe, separa l'abside, con l'altare, dalla navata dove si trovano i fedeli, lo studio di M. Winkler apporta precisazioni particolarmente importanti, le quali dovrebbero interessare non solo l'amatore di arte sacra, ma il teologo e il liturgista. La sua analisi potrebbe così contribuire a quella presa di coscienza dell'essenziale e dell'«unica cosa necessaria» che, in tutti gli ambiti della vita ecclesiale, si impone al cristiano di oggi e, in particolare, a noi, cristiani ortodossi.
La storia dell'iconostasi, così come è brevemente abbozzata ne «I Giorni di Festa», ci sembra suggerire un certo numero di constatazioni e riflessioni.
Non vi è alcun dubbio che l'iconostasi nella sua forma attuale, monumentale, sia frutto di uno sviluppo relativamente tardivo. Così come la conosciamo, con le sue cinque file di immagini sovrapposte, occupante tutta la larghezza e l'altezza della navata, traforata da tre porte che conducono alla triplice abside, essa non appare e non prende la sua forma definitiva, in Russia, che nel secondo quarto del XV secolo. San Sergio di Radonež (1313-1392), il maestro spirituale per eccellenza della Russia moscovita, non l'ha conosciuta in questa forma e, forse, nella sua sollecitudine per la sobrietà e la povertà monastica, non l'avrebbe ammessa. D'altra parte, è solo a partire dal XVII secolo che l'iconostasi russa si diffonde nel resto del mondo ortodosso[1]. Questa constatazione non implica, in sé, alcun giudizio sul valore spirituale dell'iconostasi e sulla sua conformità alla tradizione ecclesiale. La Chiesa può perfettamente riconoscere come proprio, cioè come adeguato alla Verità Divina di cui essa non solo ha il deposito, ma che è iscritta nel suo cuore dall'effusione sempre rinnovata e sempre nuova del Santo Spirito, ciò che, dal punto di vista storico, appare come un frutto tardivo della crescita del granello di senape ecclesiale. Tuttavia, è al granello, nella sua piccolezza e purezza, che conviene riferirsi per distinguere il frutto autentico da certe forme degenerate.
Fin dal IV secolo [...] al tempo dei Padri della Chiesa, isolava l'altare dalla navata. Divisorio trasparente [...] simboleggiava la distinzione senza separazione e, allo stesso tempo, l'incontro, nella Liturgia, del mondo celeste, eterno, e del mondo terrestre, effimero; della Chiesa gloriosa già elevata ai cieli in Cristo e nella persona della Madre di Dio, e della Chiesa sofferente e militante, in via.
L'iconostasi attuale, come mostra M. Winkler, è già in germe nella recinzione che, fin dal IV secolo, al tempo dei Padri della Chiesa, isolava l'altare dalla navata. Divisorio trasparente (si trattava generalmente di una balaustra di pietra o di marmo, poco elevata e decorata con emblemi cristiani), essa simboleggiava la distinzione senza separazione e, allo stesso tempo, l'incontro, nella Liturgia, del mondo celeste, eterno, e del mondo terrestre, effimero; della Chiesa gloriosa già elevata ai cieli in Cristo e nella persona della Madre di Dio, e della Chiesa sofferente e militante, in via[2].
La «lotta per le immagini» del IX secolo, la cui posta in gioco fu, insieme al dogma cristologico, la possibilità di un'antropologia e di un umanesimo cristiani in esso implicati, dotò questa recinzione primitiva, dopo la sconfitta degli iconoclasti, di un'immagine di Cristo posta al centro dell'architrave che coronava l'apertura centrale. Così «l'alleanza era... introdotta tra la recinzione e la pittura, ci si avviava verso l'iconostasi» (p. 6).
Un'altra tappa viene ben presto superata quando, alla destra e alla sinistra di Cristo, si raffigurano i due intercessori, la Madre di Dio e San Giovanni Battista. Tale è il tema dell'icona chiamata Deesis o «preghiera». Da allora il senso della parete tende non a cambiare, come scrive M. Winkler, ma a precisarsi in un senso opposto al dualismo latente di certi ambienti cristiani. L'accento è posto meno sulla distinzione tra la Chiesa celeste e la Chiesa terrestre che sul legame che le unisce, nella persona degli intercessori e di quella «nube di testimoni» che presto circonderà la Madre di Dio e il Precursore, unendosi alla loro preghiera.
Quasi contemporaneamente, la redazione definitiva da parte della Chiesa del suo calendario liturgico, segnato dalle «dodici grandi feste» di Cristo e della Vergine, ciascuna delle quali illumina un aspetto del mistero della Redenzione, introduce nel tempio cristiano nuovi temi iconografici.
È a partire da questi elementi, ereditati da Bisanzio, che si costituirà l'iconostasi russa, adottata, a sua volta, dalle altre chiese ortodosse.
Anche in questo caso, conviene distinguere diversi periodi. Fino alla fine del XIV secolo, l'iconostasi russa rimane di dimensioni relativamente modeste e certi indizi provano che la sua altezza non era tale da poter impedire ai fedeli di seguire l'azione liturgica che si svolge nel santuario. Solo nel XV secolo si cominciano a erigere nelle cattedrali e nelle grandi chiese conventuali, al di sopra delle antiche balaustre di pietra o di legno, alte circa 1,50 m, le immense impalcature dell'iconostasi a cinque registri, comprendenti, oltre alle file degli intercessori e delle immagini dei giorni santi, una quarta e una quinta fila consacrate ai profeti e ai patriarchi.
Così una preoccupazione didattica, legittima in sé (analoga a quella che animava i costruttori di cattedrali gotiche), il desiderio «di rappresentare simbolicamente tutto il piano divino della salvezza e la sua progressiva realizzazione» (p.13), rischiavano di rompere l'equilibrio e la disposizione rigorosa e sobria, orientata essenzialmente alla partecipazione al dramma liturgico, dell'iconostasi primitiva.
D'altre influenze di ordine culturale e sociale, persino politico, giocheranno nello stesso senso: la potenza e la ricchezza dei principi moscoviti, il gusto del lusso, dell'arredo e della bellezza che caratterizzano una società nuova dove le chiese di pietra, «magnifiche e sontuose», diventano «il centro della vita mondana come della vita ecclesiastica» (p. 11).
L'iconostasi monumentale e sovraccarica, nonostante la sua armoniosa disposizione, nonostante l'incontestabile valore religioso delle icone che la compongono, potrebbe così apparire come l'indice di un certo indebolimento del senso liturgico, persino di una distorsione della coscienza ecclesiale.
Così, nel corso del XV e XVI secolo, nel momento stesso in cui l'arte iconografica russa raggiunge vette spirituali nelle opere di Dionisij e di Rublëv, si delinea uno scivolamento in cui i valori estetici tendono pericolosamente a sostituirsi all'ispirazione religiosa, con un movimento analogo e parallelo a quello che allontanò così tragicamente la chiesa russa «giosefiana» dalla spiritualità sobria, profetica ed evangelica di Nil Sorskij e degli starec «d'oltre-Volga»[3]. L'iconostasi monumentale e sovraccarica, nonostante la sua armoniosa disposizione, nonostante l'incontestabile valore religioso delle icone che la compongono, potrebbe così apparire come l'indice di un certo indebolimento del senso liturgico, persino di una distorsione della coscienza ecclesiale. Destinata a simboleggiare l'incontro e la riconciliazione di Dio e dell'uomo, del Cielo e della Terra, nella partecipazione della Chiesa intera all'intercessionem e all'offerta dell'Unico Sommo Sacerdote, l'iconostasi non appare forse sviata dal suo fine quando arresta e cattura, in qualche modo, la preghiera dell'assemblea cristiana, invece di condurla e mescolarla, come l'acqua è mescolata al vino eucaristico, al sacrificio di Cristo, nel cuore della Liturgia?
In una direzione del tutto diversa, lo studio di M. Winkler apre ugualmente prospettive interessanti.
L'icona esprime una visione spirituale collettiva, o piuttosto, ecclesiale, ma rifratta dalla personalità dell'artista, il quale, da parte sua, assume una cultura e partecipa di un temperamento etnico o nazionale
Due immagini dell'Annunciazione, ugualmente belle ma di stile molto diverso, una greca, l'altra russa, sottolineano sia la diversità sia l'unità dell'arte iconografica. L'icona esprime una visione spirituale collettiva, o piuttosto, ecclesiale, ma rifratta dalla personalità dell'artista, il quale, da parte sua, assume una cultura e partecipa di un temperamento etnico o nazionale. È un peccato che le dimensioni ridotte dell'opera non abbiano permesso altri confronti, i quali avrebbero messo in luce la ricchezza e la molteplicità delle interpretazioni e degli stili all'interno di una tradizione comune e nei limiti rigorosi del canone ecclesiale. In tal modo si troverebbero giustificate e incoraggiate, almeno nel loro principio se non in tutte le loro realizzazioni, le ricerche e gli sforzi creativi di certi pittori di icone moderni, in Oriente come in Occidente.
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