1. Introduzione

La fine dell'Impero romano d'Oriente (impropriamente detto "bizantino"), avvenuta con la conquista e la presa di Costantinopoli da parte dei turchi, non ha significato la fine della romanità per i patriarcati orientali perché la romanità non s'è mai identificata con un'etnia né si è ristretta nell'orizzonte di un progetto politico ma ha sempre voluto indicare una modalità esistenziale.

Costantino-imperatore-di-BisanzioPresentare al lettore italiano il pensiero del prof. Giovanni Romanides non è un'impresa facile. La difficoltà non consiste nel tradurre i suoi scritti ma nel rendere accessibile quanto il teologo cristiano-ortodosso esprime. Questo perché esiste una profonda differenza di mentalità tra l'Occidente cristiano e l'Ortodossia, differenza misconosciuta e minimizzata dal cattolico disinformato e dall'ortodosso che vive superficialmente la sua fede. Fortunatamente viviamo in un tempo nel quale sono state abbattute diverse barriere e dovrebbe essere molto più facile il confronto e la conoscenza di orientamenti anche molto distanti tra loro.

Il movimento ecumenico ha voluto superare molte diffidenze inaugurando una nuova fase nel dialogo e nell'incontro tra le confessioni cristiane come tra le varie religioni. Il suo indubbio merito consiste nell'affermare che nessuno può esimersi dal sincero confronto. Tuttavia tale movimento è caratterizzato, talora, da uno stile piuttosto semplicistico, se non proprio superficiale. Questa superficialità trae la sua probabile origine dall'implicito desiderio in alcuni d'evitare ogni possibile confronto che possa creare una salutare crisi di crescita. L'eccessiva insistenza nell'esaminare gli elementi che unirebbero i cristiani tende a rimandare e a minimizzare la riflessione su ciò che li separa. Pertanto si organizzano convegni e assemblee ecumeniche con suggestive manifestazioni dove, però, manca spesso il reale incontro. Così, invece d'ottenere un efficace arricchimento, si punta a compromessi umani che non lasciano nulla di veramente costruttivo e duraturo. Solo la conoscenza, l'approfondimento e il dibattito sulle contraddittorie problematiche della storia nella quale il cristianesimo è vissuto, possono apportare un rinnovamento personale ed ecclesiale.

Questo libro – formato dalla traduzione di tre capitoli storico-teologici – entra nella prospettiva appena affermata. L'Autore , infatti, non ha evitato il confronto né con le assemblee ecumeniche né con l'uomo contemporaneo. Ha svolto lunghi anni di servizio come sacerdote e pastore in parrocchie greco-ortodosse in America ed ha rappresentato il Patriarcato Ecumenico in diversi incontri e colloqui ecumenici. In tutto l'arco della sua attività pastorale e di docente universitario, il suo pensiero non ha perso quella chiarezza che caratterizza la Tradizione ortodossa. Di tale Tradizione traccerò una breve fisionomia presentando, al contempo, i tratti salienti del pensiero dell'Autore che, pure con alcune sue caratteristiche personali, la rappresenta. Le pagine indicate tra parentesi rimandano ai contesti dai quali l'affermazione è tratta o è fondata.

Oggi è ancora ricorrente presentare la Chiesa ortodossa con i termini sbrigativi di "tradizionalista" e "statica". Chi lo fa è ben distante dal comprendere che l'apparente staticità, respinta dalla mentalità occidentale, ha il suo senso nel sostenere e nel favorire efficacemente una corretta evoluzione spirituale nell'uomo che si apre alla conversione, attraverso la quale egli incontra e speri­menta la presenza del Dio vivo. In altre parole, l'immutabilità nel conservare le tradizioni ascetiche e teologiche dei padri teofori è necessaria perché l'uomo d'ogni tempo sia immerso in un profondo dinamismo spirituale col quale, purificando il proprio cuore, possa veramente incontrare Dio e non le sue fantasie religiose o le sue moralistiche aspirazioni (p. 60). Ciò che contraddistingue la Tradizione ortodossa è, infatti, la sua eminente "empiricità". Qualsiasi mezzo ecclesiastico, perfino il dogma stabilito dalla Chiesa, viene concepito in stretta relazione col soggetto (pp. 102, 115, 121) affinché egli possa accedere alla theoria, cioè ad un rapporto ineffabile e inesprimibile con Dio (p. 66). Così non ci troviamo di fronte ad un impianto di pensiero teorico, filosofico e metafisico ma davanti ad un concreto percorso che porta la persona alla comunione con un Dio scoperto al centro della sua stessa vita. Ciò che caratterizzò sin dai suoi inizi la teologia franca fu, invece, il fascino per la metafisica. I franchi non sospettarono neppure che le speculazioni patristiche avessero dei fondamenti sia nella realtà creata che in quella spirituale (p. 55). Mentre la teologia patristico-romana contemplava inscindibilmente l'ambito morale e l'ambito teologico, i franchi contribuirono a separare le due cose per cui la morale divenne una disciplina indipendente dal dogma e quest'ultimo si impose come una filosofia che, partendo da alcuni presupposti agostiniani (p. 100), poteva definire la sostanza di Dio.

Forse in questo libro il lettore potrà equivocare il messaggio dell'Autore se concluderà frettolosamente che egli nutre un'anacronistica nostalgia verso l'ordinamento religioso-politico e sociale "bizantino". Se si osserva meglio il prof. Romanides vuole dire altro. La fine dell'Impero romano d'Oriente (impropriamente detto "bizantino"), avvenuta con la conquista e la presa di Costantinopoli da parte dei turchi, non ha significato la fine della romanità per i patriarcati orientali perché la romanità non s'è mai identificata con un'etnia né si è ristretta nell'orizzonte di un progetto politico ma ha sempre voluto indicare una modalità esistenziale. Perciò romano è sempre stato sinonimo di cristiano mentre greco è sempre stato sinonimo di pagano (p. 29). In questo contesto l'Autore asserisce che gli aspetti istituzionali del cristianesimo orientale divennero mezzi di sopravvivenza nazionale per i romano-orientali (tra i quali i cosiddetti bizantini) poiché essi, sia durante l'invasione araba che sotto l'occupazione turca, conservarono i propri vescovi romani. Non altrettanto avvenne in Occidente, dove gli invasori franco-germanici impossessandosi della Chiesa e della sua proprietà asservirono i romano-occidentali (p. 48) sostituendo i vescovi romani con vescovi franco-gemanici. In tal maniera, il patriarcato dell'Antica Roma si trasformò in un'istituzione franca (p. 85) alienandosi dalla comune Tradizione della Chiesa il cui scopo principale consisteva nel far crescere e maturare il credente, non nel sottometterlo ad una ierocrazia (p. 76) divorata dall'assillo del dominio mondano. Nell'alveo della Tradizione condivisa da tutto l'Ecumene cristiano, Roma era riuscita a ridimensionare gli aspetti discutibili della dottrina agostiniana collocandoli nel pensiero complessivo degli altri Padri romani (p. 83) e a respingere con diplomazia e fermezza le innovazioni dogmatiche propugnate dai franchi. Costoro si servirono di qualche peculiarità teologica per inserirla in un pretestuoso gioco di contrapposizioni polemiche, al fine d'ottenere lo scandalo e, col tempo, la scissione ecclesiale. Emblematico, in tal senso, è il tema teologico del Filioque che fu estrapolato dal suo contesto e assolutizzato dalla teologia franca per i fini eminentemente politici di Carlomagno e degli imperatori germanici.

Il credo niceno-costantinopolitano specifica che lo Spirito Santo trae la sua origine per "processione" solamente dal Padre. Nell'economia salvifica lo Spirito passa attraverso il Figlio per la salvezza dell'uomo. Quest'ultimo aspetto (ciò che lo Spirito fa) è stato confuso con il primo (la causa per cui lo Spirito esiste e che permette di definirlo come persona o hypostasis) (p. 97). In tal maniera è stato creato il presupposto teologico per giustificare l'inserzione della parola Filioque nel Credo niceno-costantinopolitano, parola con la quale, nel contesto del Simbolo, si afferma una duplice causa d'esistenza per lo Spirito. Lo Spirito, allora, procederebbe dal Padre e dal Figlio; ex Patre filioque procedit. Il suo procedere comporterebbe necessariamente la propria causa ontologica nelle altre due Persone. L'Autore precisa che, siccome il franco Filioque presuppone l'identità dell'essenza divina increata (ciò che Dio è) con l'energia divina (ciò che Dio ha) e poiché la partecipazione all'essenza divina è impossibile, la tradizione latina è stata condotta automaticamente a pensare la grazia comunicata all'uomo come una creatura, conducendo alla sua oggettivizzazione e alla sua magica manipolazione sacerdotale (p. 120). Come eresia il Filioque è nocivo quanto l'arianesimo e questo nasce dal fatto che i suoi assertori riducono le lingue pentecostali di fuoco allo stato di creature come Ario aveva fatto con l'Angelo di Gloria dell'Antico Testamento (p. 122). Non meraviglia, allora, che la proposizione fu rigettata dai papi romani proprio per la sua eresia poiché essa annullava il principio monarchico nel Padre (p. 89). I papi germanici, al contrario, la accolsero. Tuttavia i papi germanici non impressero un'impronta innovativa solamente a questo tema. La loro attività finì per creare un'ecclesiologia verticistica sconosciuta agli occidentali vissuti nel periodo precedente allo scisma con l'Oriente. Questo contribuisce a spiegare la profonda diversità intercorrente tra papi come Gregorio Magno e Gregorio VII. Il primo ha un pensiero romano, il secondo è un discendente dell'esercito d'occupazione franco stabilito in Italia dal tempo di Carlomagno (p. 46). Ecco perché i romano-orientali non accettarono la legge imposta da questa nuova serie di pontefici che sedevano sulla cattedra patriarcale di Roma (p. 53) e respinsero le unilaterali innovazioni dogmatiche occidentali. Potrà essere utile segnalare al lettore che l'Autore utilizza il termine di "franchi" per indicare, non solo, la razza franca ma pure i loro discendenti o anche coloro che ne trasmisero la mentalità. Così, al concilio di Firenze, finiamo per trovare dei franchi (pp. 81, 93) contrapposti a dei romani che, in questo caso, sono i cosiddetti bizantini. Identico metodo viene utilizzato per i romani parte dei quali sono identificati con le odierne popolazioni romanze dei Balcani e del Medio-Oriente (p. 52 n.).

Forse questo percorso storico-teologico priverà il cattolico di quel giudizio di somiglianza attraverso il quale egli avvicina l'Occidente all'Oriente cristiano. I libri di spiritualità ortodossa, che può aver letto riconducendoli, senza volerlo, in categorie estranee all'Ortodossia, possono avergli creato l'illusione intellettuale che esista una certa affinità tra i due mondi cristiani. Sono queste le ragioni per cui, forse, alcuni temi esposti dall'Autore gli parranno difficili e dissonanti. Eppure questo linguaggio forte ma limpidamente autentico è in grado di donare al lettore un'idea meno imprecisa della lucida coscienza che, da secoli, anima il cristianesimo orientale. Davanti a ciò è evidente che esiste una maggior contiguità tra il mondo protestante e quello cattolico che tra quest'ultimo e l'Ortodossia, nonostante alcuni elementi comuni ereditati dalla Tradizione come i sacramenti e la gerarchia ecclesiastica.

Da questo libro emerge anche una potente provocazione a considerare la spiritualità e la preghiera nel loro senso più puro, alieno, quindi, da quel formalismo legale e da quella romantica superficialità con le quali tali discipline sono state spesso avvilite nell'ambito della Cristianità occidentale. Un percorso culturale e storico diverso e, probabilmente, una diversa considerazione non avrebbero confinato la spiritualità nell'area marginale degli studi teologici ma l'avrebbero centrata nel cuore della stessa teologia. Così sarebbe pure risaltato il senso della fede. Tale senso, dal momento in cui si esal­ta troppo la prassi dell'assistenzialismo sociale e si esauriscono gli ideali nel piccolo orizzonte dei compromessi mondani, non può che essere messo in ombra, poiché la fede, a differenza dei progetti umani, non punta ad una dimostrazione eclatante, a ri­sultati materiali e quantitativi con un riscontro immediato e vi­sibile.

Tra le considerazioni dell'Autore si noterà una sua personale riserva verso il pensiero agostiniano. E' necessario osservare che la prospettiva ortodossa non rigetta il pensiero agostiniano tout court ma si allontana da esso in quegli aspetti dove tale pensiero si discosta dalla comune dottrina patristica. Questo, d'altronde, è il principio cattolico per cui non vengono accettati gli asserti teologici che si pongono all'esterno del percorso tracciato dal sensus fidei.

In conclusione mi auguro che il presente lavoro, per quanto possa parere severo, sia d'efficace giovamento ad ogni persona sinceramente interessata a confrontarsi con la vivente Tradizione cristiano-ortodossa.

 

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